E’ una giornata   caldissima di luglio e ho un appuntamento assurdo alle 2 del pomeriggio  in una via di Roma solo asfalto e palazzi. Nell’attesa mangio qualcosa  in un bistrò dall’aria fresca artificiale  mentre discuto con Orazio  Converso, in modo anche animato come ci capita di fare. Lui poi scuote  la testa e dice: inutile discutere, con le persone bisogna fare - ma  io non sono molto d’accordo, nella misura in cui la discussione mette  in circolo le idee. Parliamo di scuola e non è strano, o forse sì.
  E’ stato  il mio insegnante di matematica al liceo e ci conosciamo da trentadue  anni  - ed è questa la cosa strana., perché la gente ci impiega  molto meno tempo a perdersi, tanto che quando un legame resta,  bisognerebbe  piuttosto chiedersi come ha fatto a restare, per quale miracolo. Forse  ci ha legato anche la scuola. Il suo mestiere, il mio mestiere, questo  entusiasmo mai sopito per chi non è ancora del tutto adulto – per  sua fortuna, e nostra
 Io e Orazio  abbiamo anche rischiato di “fare” qualcosa insieme per l’Università  della Calabria, ma senza esito, e quindi io e lui ogni tanto di scuola  “discutiamo”, senza trovarci d’accordo.
 Il tema del  contendere è l’uso della Rete a  scuola, l’uso della  tecnologia, o quello che ora si definisce l’uso delle ITC, più in  generale il modo di fare scuola.  Orazio lo ha per parte sua contestato  e smontato trent’ anni fa, e ha non di certo cambiato idea proprio  ora.
 Avendo lavorato   all’università, i ragazzi nuovi (antropologicamente mutati, come  forse direbbe Pasolini, o nativi digitali, come ormai dicono tutti)  lui li conosce bene.
 Concorda con  me che non sanno scrivere, o pensare, o organizzarsi, o avere un  progetto,  per lo più - che è un disastro. Eppure la sua soluzione non è immaginare   una scuola che faccia meglio il suo mestiere di scuola con gli  strumenti usati fino ad ora, ma quando mai.
 Una scuola  così era inutile trenta anni fa,  ora è ridicola. La differenza  è inoltre che ora un insegnante se non è stupido almeno ha la Rete  e tutta la tecnologia che ci tiene in Rete. Lì c’è la vita, la libertà,  ci sono i ragazzi e il loro potere di imparare ed essere, facendo.   Che sto ancora io ad insistere con i libri, le lezioni trasmissive,  gli appunti?
 Aspetto che  concluda  e poi rispondo con la sua stessa veemenza.
 Gli ho appena  chiesto come usare un notebook in classe collegato in rete – un  netbook mi ha corretto – e non dico che non abbia ragione, in  parte. Dico che se i ragazzi sono buttati ad usare la Rete, e basta,  dico che se la scuola rinuncia ad insegnare il pensiero logico-formale,  dico che se facciamo a meno dei libri e di Gaio Valerio Catullo, i  ragazzi  usando la Rete ne resteranno succubi, saranno convenzionali, banali,  incapaci di usare le parole, presi da pochi pensieri e sempre quelli.
 Quindi il fatto   è che io sono arrabbiatissima contro una classe politica – e un governo  in particolare - che non riforma proprio un cavolo di niente, che non  affronta il problema vero – la sostanza – che non ha un progetto  culturale se non un generico efficientismo burocratico; il fatto è  che io da sempre cerco di capire e sperimentare vie nuove ma non ci  penso nemmeno di eliminare Gaio Valerio Catullo dal mio fare scuola.  Lo spiego e lo faccio studiare. Con i compiti.( Sebbene un dubbio ogni  tanto mi sfori – che sia davvero ridicola, senza riscatto ridicola,  ora, la parola compiti, ma questo non glielo dico – lo penso  soltanto.)
 E decido pure  di non citare il libro che ho nella borsa, perché stiamo parlando con  le nostre parole  e non servono quelle degli altri, ma comunque  è “Il rapporto sulla scuola in Italia 2010” della Fondazione Agnelli,  che dà ragione a lui e anche a me. Da’ ragione a  lui quando sostiene  che Nello stesso tempo fare scuola con il supporto delle ITC e della  rete – fruttandone le qualità interattive  – può facilitare il coinvolgimento e l’acquisizione di responsabilità  da parte del discente, orientandolo verso una costruzione attiva delle  proprie conoscenze e strategie di apprendimento: un  “imparare facendo” (learning by doing), una pratica didattica  che potrebbe sostituire “in parte il tradizionale apprendimento  per via trasmissiva di nozioni.
 E però  pure il testo dà ragione a me quando scrive qualche pagine più  in là  Non solo questo però, il ruolo del docente deve, infatti,  continuare a essere anche quello di curare quelle abilità  cognitive che nei ragazzi rischiano di deteriorarsi per l’azione delle  agenzie formative informali e spesso anche per i rischi connessi alla  stessa diffusione delle IT: fra gli altri, la ricchezza e l’espressività   linguistica, il pensiero logico e consequenziale, soprattutto la  capacità  riflessiva, che negli stili di vita dei nativi digitali trovano sovente  meno occasioni di formarsi”
 Chiedo ad  Orazio  se mi aiuta ad aprire uno spazio di discussione e un deposito di  materiali,  in Rete.
 Io da per me  sono stupida digitale, e da sola saprei realizzarlo.
 Così  nasce questo spazio, che si chiama, dopo trentadue anni, nell’unico  modo possibile, e cioé  “via Galilei n° 1”.